“Hasta los huesos” è il nuovo film che divora se stesso, come un’immagine goya di Saturno, diretto da Luca Guadagnino per continuare a infrangere i tabù, a suo modo indie e mainstream, dopo il successo di “Chiamami col tuo nome” e il fiasco creazione di “Suspiria”.
“Bones and all” pretende di essere un sequel cruento e dannoso per il genere di questo film hipster tra due ragazzi millenari.
Nel film del 2022, infatti, torna Timotheé Chalamet con lo sguardo androgino di un allampanato e malinconico James Dean, amante della carne come il suo precedente partner immaginario, Armie Hammer, che non è più nel cast, ma sembra fare l’occhiolino e romanzarsi nella sua disfatta predilezione per il cannibalismo.
È uno degli easter egg che dovrete trovare questo Natale, durante il nuovo lungometraggio del creatore italiano di “A Bigger Splash”.
Infatti, il cast offre un menu d’autore, che permette loro di riscoprire i loro feticci attori, come Michael Stuhlbarg (il padre di Timotheé in “Call Me”), assistito da una troupe di interpreti come il regista Davin Gordon Green (“Halloween Ends”) , Chloë Sevigny (la musa del primo Harmonie Korine) e un Mark Ryalance che vuole contendersi il trono con “Hanibal” di Antony Hopkins.
Eppure la canadese Taylor Russell, 28 anni più giovane, ruba i primi piani e i cuori solitari del pubblico come una giovane donna con una sindrome da vampiro iperrealista a forma di croce. tra il tormentato “Martin” di George Romero e la vilipesa saga di “Twilight”, accusata di seppellire la tendenza dei discendenti del conte Dracula, attraverso il suo glamour.
La protagonista si chiama Maren, soffre di una grave condizione di orfana e abbandono, dovuta alla sua condizione di cannibale in terra. In un classico road movie, di autostrade perdute e cuori selvaggi di David Lynch, incrocerà il destino con personaggi spettrali e zombie, che la sua mente può generare o ricreare, come meccanismo di difesa contro il suo labirinto di solitudine.
Ambientato nel passato degli anni ’80, non idealizzato, il film suggerisce che c’è un peccato capitale nella persistenza di un’America silenziosa e periferica, dove covano difetti e disfunzioni, come un germe virale che rode le basi del Paese . .
Lo scenario innesca innumerevoli allegorie, pronte alla lettura intelligente di critici e spettatori, interpellati da un linguaggio poetico ed ellittico di immagini impressioniste, sovvertite dalla forza naturale dei buoni selvaggi, di un’incontrollabile animalità primitiva e bestiale. .
Non dimenticare che il film si apre con dipinti e termina con cartoline legacy del gotico degli anni ’60 e ’70, come “Bad Lands”, “Easy Ryder” e “The Texas Chainsaw Massacre”.
Per qualcosa, il consumatore sensibile, vitreo, mangiatore di popcorn alienato dall’algoritmo del cellulare sarà sorpreso sullo schermo, quando il regista mantiene ciò che ha promesso alla sua conferenza stampa: prendere le sue stelle come cavallo di Troia da uno dei più film assetati di sangue dell’anno, oltre ad alcuni filmati inquietanti nella sua fredda esposizione.
Commentavo con la professoressa Malena Ferrer, che non ricordiamo un’emorragia di spettatori spaventati, da parte di un gruppo di autori, dalla prima di “Funny Games USA”, diretto da Michael Haneke.
Forse è una conseguenza dell’abitudine a diete mondane, supereroi e pezzi bevibili di ONG, che sono arrivati a dominare la rete di streaming.
Negli anni Ottanta, anche prima, era comune avere titoli come questo a fiotti sugli scaffali delle videoteche. Questa serie “z” è ora relegata alla rappresentazione minoritaria delle rarità del Festival.
Ecco perché “Hasta los huesos” è una sorella non celebrata di “Raw-Raw”, il vincitore della Palma d’oro per “Titanium”, un altro film singolare dell’ultima nuova carne, postcronenberg.
Alla fine, con Malena, abbiamo riconosciuto un membro della nostra specie di cannibali del cinema. Lì, “Bones and all” ci seduce e ci piace, per il suo ricco tessuto intertestuale, ricco di citazioni e omaggi, reinvenzioni e riflessioni sulla condizione cannibalistica della settima arte.
Dopo la fine della modernità, Luca Guadagnino propone di abbandonarsi a un piacere colpevole, a un esercizio di stile, che ripensa il germe della sua mutante dissidenza.
Vale la pena celebrare l’abilità tecnica e il coraggio concettuale con cui intraprende la triturazione delle viscere di una certa tendenza che gli manca.
Mi affascina il fatto che Guadagnino utilizzi i suoi ricordi abbandonati, per salvarli in una colonna sonora che rende omaggio al metal meno pregiato, quello dei Kiss senza trucco nel controverso album Lick It Up.
Allusione al fatto che l’avanguardia, che la sottocultura, prima o poi, deve unirsi, senza rinunciare alla sua essenza di lato B, alla spazzatura industriale che ispira l’arte contemporanea con la sua reminiscenza pop e ironica.
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